L’immagine della naturanel materialismo dialetticoleniniano
Negli appunti sparsi e discontinui dei Quaderni filosofici non possiamo trovare una elaborazione originale e sistematica; possiamo tuttavia rintracciare, nelle sottolineature e nelle osservazioni di assenso o di dissenso annotate da Lenin in margine alle sue letture filosofiche, molti elementi del suo pensiero sulla natura e sul rapporto uomo-natura. Essi non ci offrono nuove scoperte: ci confermano semmai il particolare debito del materialismo dialettico leniniano verso Engels (e verso Feuerbach e Hegel) per ciò che riguarda la concezione dell’uomo come parte pende da esso, determina per suo tramite la propria attività… Due forme
del processo oggettivo: la natura… e l’attività ponentesi un fine. Correlazione di queste due forme. I fini dell’uomo sembrano dapprima estranei (‘altri’) rispetto alla natura. La coscienza dell’uomo, la scienza… rispecchia l’essenza, la sostanza della natura, ma è al tempo stesso un che di esteriore rispetto alla natura (non coincide con essa immediatamente, semplicemente). La tecnica… serve ai fini dell’uomo appunto perché il suo carattere (essenza) consiste nella sua determinazione da parte delle condizioni esterne (leggi della natura)… In realtà i fini dell’uomo sono generati dal mondo oggettivo e lo presuppongono: lo trovano
come un dato, come presente. Ma all’uomo sembra che i suoi fini siano fuori del mondo e da esso indipendenti (‘libertà’).” Sui problemi ecologici dell’agricoltura capitalistica.
Troviamo invece le prove dell’attenzione precoce di Lenin per i temi ambientali in alcuni saggi degli inizi del Novecento, compostie pubblicati fra il 1901 e il 1907 e successivamente raccolti in volume col titolo La questione agraria e i “critici di Marx”. In questi scritti – occasionati dalle polemiche seguite alla pubblicazione nel 1898 del voluminoso saggio di Karl Kautsky Die Agrarfrage (la questione agraria), che riproponeva e aggiornava autorevolmente le posizioni marxiste in materia Lenin esamina criticamente le posizioni dei “revisionisti”tedeschi (David, Hertz, ecc.) e dei critici russi di Kautsky (Bulgakov e Cernov). Questi, sulla scia deglieconomisti borghesi, tendevano a negare lo sviluppo capitalistico dell’agricoltura e ad attribuire al carattere conservatore delle “forze della natura” e alla cosiddetta “legge della fertilità decrescente della terra” l’arretratezza dell’economia agricola e l’impoverimento dei contadini, cioè ad eludere o a negare le vere cause sociali e storiche di questi fenomeni. Lenin, in effetti, non si limita a una difesa d’ufficio di Kautsky o della teoria marxista, compito che comunque porta a termine con la ben nota implacabilità, demolendo i critici nel merito e nel metodo e dimostrando ad abundantiam la loro inattendibilità scientifica. Riprendendospunti e idee della sua opera precedente Lo sviluppo del in Russia, egli ripropone proprio alla luce delle novità introdotte dallo sviluppo storico e dall’avanzamento delle scienze naturali, l’intatta validità delle posizioni di Marx e di Engels sulla rendita, sulla penetrazione dei metodi capitalistici nelle campagne,sulle tendenze alla concentrazione della proprietà agraria e alla rovina dei piccoli produttori indipendenti e così via. Su due temi in particolare Lenin difende appassionatamente Kautsky e le posizioni dei “classici”:
1) l’analisi delle conseguenze antiecologiche dei metodi della moderna agricoltura, che provocano il depauperamento del suolo, compromettono la salute dei lavoratori e comportano l’inquinamento delle città e dei fiumi;
2) la soluzione socialista di questi problemi, che passa necessariamente per l’eliminazione progressiva dell’antagonismo fra città e campagna da un lato e dall’altro per l’utilizzo di tecniche di coltivazione attente
a preservare la fertilità dei suoli (“sostenibili”, diremmo oggi). Nel quarto dei saggi che compongono
il volume – significativamente intitolato L’eliminazione dell’antagonismo fra città e campagna. Questioni particolari sollevate dai “critici” – dopo aver duramente replicato a Cernov e alle accuse da questi rivolte a Kautsky di ignorare i risultati delle più recenti ricerche scientifiche (36), Lenin ribadisce il punto di vista già espresso negli scritti di Marx e di Engels. Osserva in particolare che l’utilizzo dei fertilizzanti artificiali “sarebbe un palliativo in confronto allo sperpero degli escrementi umani dovuto all’attuale sistema di fognatura delle città... E’ chiaro che la possibilità di sostituire i concimi naturali con fertilizzanti artificiali
e il fatto che questa sostituzione venga (parzialmente) già praticata non intaccano minimamente la verità che è irrazionale sperperare senza utilizzarli i concimi naturali, infettando tra l’altro coi rifiuti i fiumi e l’aria nelle zone suburbane e vicine ai centri industriali... I fertilizzanti artificiali – dice Kautsky ... – ‘permettono di far fronte alla diminuzione della fertilità del terreno; ma la necessità di impiegarli in quantità sempre maggiori significa
soltanto che nuovi pesi si aggiungono ai molti altri che già gravano sull’agricoltura, pesi che non sono una necessità naturale, ma derivano dai rapporti sociali esistenti’.” Si noti che Lenin difende “la concezione
socialista dell’eliminazione dell’antagonismo tra città e campagna” contro i critici (Bulgacov e Hertz) che l’avevano definita “pura fantasia” e “utopistica”, per motivi fondamentalmente ecologici: “Ma l’aperto riconoscimento della funzione progressiva delle grandi città nella società capitalistica non ci impedisce affatto d’includere nel nostro ideale (e nel nostro programma d’azione…) l’eliminazione dell’antagonismo tra città e campagna. Non è vero che ciò equivalga a rinunciare ai tesori della scienza e dell’arte. Al contrario: ciò
è indispensabile per rendere questi tesori accessibili a tutto il popolo, per eliminare quell’isolamento dalla civiltà di milioni di abitanti della campagna che Marx ha giustamente definito ‘idiotismo della vita rustica’. E oggi che l’energia elettrica può essere trasmessa a grandi distanze, che la tecnica dei trasporti è giunta fino a permettere di trasportare i viaggiatori, e con minori spese (di quelle attuali), a più di 200 verste all’ora [una
versta è pari a km 1,07; ndr], non esiste assolutamente nessun ostacolo tecnico a che tutta la popolazione,
disseminata in modo più o meno uniforme per tutto il paese, approfitti dei tesori della scienza e dell’arte accumulati in alcuni centri nel corso dei secoli. “E, se nulla si oppone all’eliminazione dell’antagonismo tra città e campagna (e non si deve certo immaginarla nella forma di un unico atto, ma in quella di tutta una serie
di misure), non è certo il solo ‘sentimento estetico’ a richiederla. Nelle grandi città gli uomini sono soffocati, secondo l’espressione di Engels, dal fetore dei loro propri rifiuti [Lenin fa qui riferimento a un passo di Engels ne La questione delle abitazioni, ndr], e tutti coloro che possono fuggono periodicamente dalla città alla ricerca di aria fresca e di acqua pura. Anche l’industria si dissemina per tutto il paese, perché anch’essa ha bisogno di acqua pura. Lo sfruttamento delle cascate, dei canali e dei fiumi per produrre energia elettrica darà nuovo impulso a questa ‘dispersione dell’industria’. Infine, last but not least, l’utilizzazione razionale dei rifiuti della città in generale, e degli escrementi umani in particolare, tanto importanti per l’agricoltura, esige anch’essa tra città e campagna.” Infine – e chiudiamo con questo l’esame di questi scritti, che in verità
presentano molti altri spunti di attualità – meritano di essere riferite alcune osservazioni di portata generale relative al rapporto uomo-natura che Lenin inserisce en passant nella trama del ragionamento perché, fra l’altro, smentiscono il luogo comune che accusa il marxismo e i marxisti di disconoscere il posto della
natura nei processi produttivi in virtù di un’errata valutazione del lavoro umano come unica forza produttiva. Questo, invece, è proprio l’errore che Lenin, sulla scia di Marx, contesta a Bulgakov che “ .scade al livello dell’economia volgare, chiacchierando di sostituzione del lavoro umano alle forze della natura, ecc. Sostituire
il lavoro umano alle forze della natura è, generalmente parlando, altrettanto impossibile quanto sostituire
i pud agli arsin [la prima è una misura russa di lunghezza, la seconda di peso, ndr]. Nell’industria
come nell’agricoltura l’uomo può soltanto utilizzare l’azione, se la conosce, delle forze della natura e rendere più facile a sé stesso questa utilizzazione per mezzo di macchine, attrezzi, ecc.” Questa osservazione, apparentemente marginale, ci dice in verità due cose importanti: 1) che sul terreno analitico Lenin presta grande attenzione alla dimensione fisica, concreta, dei processi produttivi (che è quella nella quale si manifestano in prima istanza i problemi ecologici, perché questi sono per l’essenziale problemi del ricambio
materiale organico fra lesocietà umane e il loro ambiente naturale); 2) che sul terreno filosofico più generale Lenin riconosce nella natura un ordine predeterminato e irriducibile alla volontà umana, un ordine che l’uomo
non può pensare di alterare. Si tratta di una posizione, come per altro quelle di Marx e di Engels, che rientra indubbiamente nella tradizione dell’antropocentrismo che convenzionalmente si fa risalire a Francesco Bacone, ma di un antropocentrismo prudente e saggio, consapevole delle relazioni, e delle responsabilità, che connettono le società umane al proprio ambiente naturale. Si potrebbe osservare a questo punto che la posizione di Lenin che scaturisce dal nostro esame non è particolarmente originale: egli, in fin dei conti, si limita a ribadire concetti e orientamenti già proposti da Marx e da Engels e riproposti da Kautsky. Questo è
vero, ma il punto che ci premeva sottolineare qui non era l’originalità di Lenin in relazione all’elaborazione
marxista, ma piuttosto il fatto che, ben prima dell’Ottobre 1917, egli aveva assimilato e rielaborato personalmente questi temi così da possedere di questa materia una chiara consapevolezza politico-teorica. Ciò significa, in altre parole, che l’interesse con cui Lenin accolse Podiapolskij al Cremlino ed esaminò le sue idee in materia di protezione della natura, in quelle convulse giornate di guerra civile del gennaio 1919,
non fu un fatto casuale e neppure il frutto di una mera sensibilità di indole personale. Quell’interesse
nasceva da un’acuta consapevolezza dei problemi da affrontare, che a sua volta aveva una solida base teorica e filosofica. Questa base era il marxismo o, se si vuole, lo specifico “marxismo di Lenin”, alieno tanto da interpretazioni economicistiche quanto da letture idealistiche, rafforzato dalla frequentazione delle medesime “fonti filosofiche” di Marx e di Engels e forse reso più avvertito nei confronti della natura dalla passione per le scienze naturali appresa dal giovane Vladimir sui libri del fratello maggiore Aleksandr.
L’esame storico e teorico qui condotto, ci ha consentito di delineare la figura, per certi aspetti inattesa,
di un dirigente marxista rivoluzionario in possesso di una non comune percezione dei problemi ecologici e delle loro cause, nonché di idee ben precise sul modo di affrontarli e di un raro senso dell’opportunità sui passi concreti da intraprendere, stante il difficile contesto generale, obiettivo e soggettivo, per inserire la conservazione nel disegno della trasformazione socialista. Questo, anche se misconosciuto, è il contributo
prezioso che Lenin ha lasciato in un campo in cui allora tutti, non solo il giovane potere sovietico, muovevano i primi passi. Nella tragedia complessiva dell’involuzione staliniana della rivoluzione sovietica, rientra anche il capitolo della tragedia dell’ecologia sovietica. L’impulso geniale dato da Lenin in questo campo fu non
solo soffocato e tradito nella pratica, ma anche pressoché cancellato dalla memoria. E’ a questo tradimento
e a questo oblio, in verità, che dobbiamo imputare, almeno per quello che riguarda la sua causazione ideale, il “divorzio” durato a lungo fra il movimento operaio e l’ambientalismo. Anche se questo non è il luogo per ricostruire l’intera vicenda dell’ecologia sovietica, è utile riferire qui sommariamente il seguito della sua storia e in particolare il modo in cui lo stalinismo, anche in questo campo, ha rovesciato e negato l’eredità di Lenin.
L’eredità di Lenin e la tragedia dell’ecologia sovietica sotto Stalin
Abbiamo già visto il giudizio di Weiner sull’azione di Lenin: “Per fortuna, il periodo di Lenin ha lasciato solide fondamenta sulle quali costruire”. I provvedimenti degli anni 1918-1923, per quanto in parte inapplicati, costituirono infatti la base per le significative realizzazioni della seconda metà degli anni venti, quando l’economia sovietica riprese rapidamente slancio. Fu questo il periodo d’oro dell’ecologia e della conservazione in Urss. Vennero creati varie decine di zapovedniki, la cui area totale raggiunse i quattro milioni di ettari nel 1929. Cattedre di ecologia vennero istituite nelle principali università. Nacque un vero
e proprio movimento per la conservazione della natura, dotato di larga autonomia dal governo, dal
quale riceveva comunque incoraggiamenti ed appoggi attraverso il Commissariato all’istruzione e il suo titolare, Lunaciarskij.
Nel 1924 venne creato dal Commissariato all’istruzione la Società panrussa di conservazione con lo scopo di “promuovere con tutti i mezzi l’attuazione pratica della conservazione... e di risvegliare l’interesse della società”. La protezione della natura divenne parte dei programmi scolastici e vide la luce la rivista “Okrana Prirodi” (Conservazione della natura) dedicata a questi temi con un’apertura internazionale. Nel 1925 presso il medesimo Commissariato venne istituito il Goskomitet, comitato statale incaricato di sovrintendere e coordinare la politica di protezione e la gestione dei parchi nazionali. Negli stessi anni si sviluppa il ruolo in questo campo di un’associazione nel 1922 sotto l’egida dell’Accademia delle scienze, l’Ufficio centrale per lo studio delle tradizioni locali, vera e propria organizzazione di massa diretta da scienziati, giunta alla fine degli anni venti a contare sessantamila iscritti e più di duemila circoli locali.
Secondo Weiner, ebbe successo in questo periodo il dialogo fra gli esponenti più attenti e aperti del nuovo potere sovietico (oltre a Lenin e i già citati Lunaciarskij e Podiapolskij, vanno ricordati Smidovic e Ter-Oganesov, che ricoprirono a lungo posizioni di vertice in organismi legati alla conservazione), e l’ala avanzata degli ecologi e del movimento conservazionista (Kozhevnikov, Severstov, Shillinger, Alechin, Stanchiskij, Kashkarov, Makarov…). I primi, sulla scia dell’insegnamento di Lenin, giudicavano importante una saggia
gestione delle attività produttive e delle risorse naturali ai fini di un’armonica edificazione socialista, e
facevano conto per questo sulla collaborazione con gli ambienti scientifici. I secondi, che rappresentavano
la giovane generazione di studiosi, molti dei quali prima della guerra avevano avuto modo di viaggiare e studiare all’estero e di partecipare ai dibattiti internazionali, condividevano l’ispirazione modernizzatrice
del regime e in materia di protezione della natura non partivano da pregiudizi anti-industriali, presenti forse nella precedente generazione, ma da un approccio scientifico. Questa collaborazione diede risultati straordinari sia in campo scientifico (42), sia, come abbiano detto sopra, in campo realizzativo. Ma questo quadro favorevole cambiò radicalmente tra la fine degli anni venti e la metà degli anni trenta, in coincidenza con l’avvio dei piani quinquennali e la definitiva affermazione del potere di Stalin ai vertici della burocrazia.
Erano gli anni terribili dell’industrializzazione “a tappe forzate”, della crisi dei rapporti con le campagne
e della collettivizzazione coatta. Sul piano politico furono gli anni dell’espulsione di Trotsky dal paese, della liquidazione di tutte le opposizioni, dell’avvio delle grandi purghe. Il rapporto dialettico fra il regime e gli studiosi, instaurato da Lenin e garantito da Lunaciarskij, venne meno. Al dibattito relativamente libero fra diverse posizioni scientifiche e filosofiche, che aveva caratterizzato gli anni venti, subentrò la “bolscevizzazione” delle scienze e della cultura, ossia l’obbligo per artisti e studiosi di uniformarsi ai criteri ideologici imposti dall’alto, senza molto rispetto per le regole dell’arte, della ricerca e della verità. Agli ecologi, in particolare, venne chiesto di smetterla di discutere gli obiettivi dei piani quinquennali e di assoggettarsi agli imperativi di crescita fissati dai burocrati dei ministeri economici. Di fronte agli effetti negativi sull’ambiente dello sviluppo industriale accelerato (inquinamento e degrado del territorio, sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, ecc.), gli ecologi avevano infatti reagito denunciando gli obiettivi
irrealistici, reclamando attenzione per i limiti naturali e avanzando idee innovative come quella di valutare anticipatamente l’impatto ambientale delle scelte economiche. Ancora nel 1931, nel primo manuale sovietico di ecologia scritto da Danijl Kashkarov, uno stretto collaboratore di Stanchinskij, si poteva leggere un’intelligente difesa dell’ecologia come guida essenziale per una pianificazione razionale dello sviluppo
economico socialista. Ma l’affermarsi della dittatura totalitaria di Stalin al vertice dello Stato e il potere dei suoi scherani nel mondo accademico (nel 1929 Lunaciarckij lasciò la guida del Commissariato all’istruzione) lasciarono pochi spiragli agli ecologi. Fra il 1932 e il 1934, Isai Izrailovic Prezent e Trofim Denisovic Lysenko (che più tardi diventeranno famosi per la persecuzione contro Nicolaj Vavilov a la genetica mendelliana in nome di una improbabile scienza “proletaria” ) fecero le prove generali della “normalizzazione”
proprio con l’ecologia. I recalcitranti furono rimossi dai loro incarichi, molti arrestati. Sorte che nel 1934 toccò anche a Vladimir Vladimirovic Stanchinskij, in quel momento il più originale teorico russo dell’ecologia e il più tenace difensore della politica di conservazione. Finì così lo straordinario esperimento che aveva
visto per tre lustri la feconda collaborazione fra il regime sovietico e un settore di nuova intelligentsija
e che aveva prodotto risultati di grande portata il cui significato storico andava oltre la Russia e gli anni venti per investire una delle questioni vitali della nostra epoca. Col prevalere dello schema staliniano del “socialismo in un paese solo”, finì per prevalere anche un’idea dello sviluppo e del rapporto con la natura di marca grettamente economicistica. I passi in avanti del “socialismo” vennero misurati in base ai milioni di tonnellate di carbone e di acciaio prodotti o alle dimensioni ciclopiche delle realizzazioni industriali. Simbolo del periodo divenne l’Hidroproject, l’ente di Stato incaricato di realizzare in tutto il paese canali, dighe e impianti idroelettrici, che forse favorirono a breve termine la rapidissima trasformazione industriale del paese, ma al prezzo di un’ingente devastazione ambientale. Alla preoccupazione di una prudente gestione dell’ambiente naturale ispirata a criteri scientifici, subentrò la pretesa di “trasformare la natura” e di “correggerne gli errori millenari”, come suonavano le affermazioni di Stalin. Più grave ancora, l’annullamento di ogni dialettica democratica all’interno della società sovietica lasciò alla burocrazia dominante le mani
libere per ogni arbitrio. La stessa normativa ambientale molto avanzata, varata nei primi anni del potere sovietico, finì per restare lettera morta e le istanze della protezione dell’ambiente vennero emarginate e soffocate per almeno un ventennio. In queste condizioni, la soppressione della proprietà privata della terra e delle risorse naturali, che aveva reso possibili le realizzazioni degli anni venti, non fu sufficiente per impedire lo sfruttamento irrazionale delle risorse e del territorio, la devastazione delle aree vergini, gli effetti nefasti di uno sviluppo economico la cui logica rifletteva le miopi priorità dei gruppi burocratici dominanti a livello centrale e locale. E’ questo il quadro che produrrà in seguito misfatti come l’inquinamento del Lago Bajkal, la morte del Mare d’Aral, il progetto di invertire il corso dei fiumi siberiani, la catastrofe nucleare di Chernobyl ... E’ in questi sviluppi politici, non certo nella polemica filosofica fra Lenin e Bogdanov dei primi del Novecento, che vanno cercate le radici reali del disastro ecologico del “socialismo reale”, ossia nella perversione dell’idea di socialismo che storicamente porta il nome di “stalinismo”. Anche in questo campo, dunque, Stalin ha rappresentato la negazione, non certo la continuità, dell’eredità di Lenin.
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